"Ubi ergo Petrus, ibi ecclesia; ubi ecclesia, ibi nulla mors, sed vita eterna".
“Onde está Pedro, aí está a Igreja; onde está a Igreja aí não há morte, mas a vida eterna”.
Santo Ambrósio, Enarrationes in XII Psalmos davidicos; PL 14, 1082
“Onde está Pedro, aí está a Igreja; onde está a Igreja aí não há morte, mas a vida eterna”.
Santo Ambrósio, Enarrationes in XII Psalmos davidicos; PL 14, 1082
quinta-feira, 17 de janeiro de 2008
Universidade "Sapienza": explosão de aplausos ao discurso de Bento XVI lido pelo Prof. Marietti. Os presentes gritaram: Viva o Papa. O texto integral.
E' stato un lungo e caloroso applauso quello che ha accolto la lettura del discorso del Papa fatta dal professor Piero Marietti. Quando sono state lette le ultime righe del discorso in cui il Papa invita a mantenere desta la sensibilita' per la verita' e invita la ragione ''a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio'' sono scattati gli applausi e qualcuno ha gridato anche ‘Viva il Papa'.
Questo il testo del discorso scritto dal Santo Padre:
"Rettore, Autorita' politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti! E' per me motivo di profonda gioia incontrare la comunita' della "Sapienza - Universita' di Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico. Da secoli ormai questa Universita' segna il cammino e la vita della citta' di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorita' ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si e' sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunita' accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le piu' prestigiose universita' del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l'impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Universita', che ha visto la vostra comunita' farsi carico non solo dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio". Mi e' caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che mi e' stato rivolto a venire nella vostra universita' per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa puo' e deve dire un Papa in un'occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, si', da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del gia' professore di quella mia universita', cercando di collegare ricordi ed attualita'. Nell'universita' "Sapienza", l'antica universita' di Roma, pero', sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e percio' debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'universita' del Papa, ma oggi e' un'universita' laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di universita', la quale deve essere legata esclusivamente all'autorita' della verita'. Nella sua liberta' da autorita' politiche ed ecclesiastiche l'universita' trova la sua funzione particolare, proprio anche per la societa' moderna, che ha bisogno di un'istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa puo' e deve dire il Papa nell'incontro con l'universita' della sua citta'? Riflettendo su questo interrogativo, mi e' sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da se' alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual e' la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual e' la natura e la missione dell'universita'? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa e' anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtu' della successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilita' episcopale nei riguardi dell'intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"-episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", gia' nel Nuovo Testamento e' stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli e' colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l'interno della comunita' credente. Il Vescovo - il Pastore - e' l'uomo che si prende cura di questa comunita'; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesu' - e non soltanto indicata: Egli stesso e' per noi la via. Ma questa comunita' della quale il Vescovo si prende cura - grande o piccola che sia - vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunita' umana nel suo insieme. Quanto piu' grande essa e', tanto piu' le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull'insieme dell'umanita'. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa - le sue crisi e i suoi rinnovamenti - agiscano sull'insieme dell'umanita'. Cosi' il Papa, proprio come Pastore della sua comunita', e' diventato sempre di piu' anche una voce della ragione etica dell'umanita'. Qui, pero', emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validita' per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perche' si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa e' la ragione? Come puo' un'affermazione - soprattutto una norma morale - dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalita' secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l'altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l'esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalita' a-storica, la sapienza dell'umanita' come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - e' da valorizzare come realta' che non si puo' impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunita' credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza e' maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunita' che custodisce in se' un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanita': in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa e' l'universita'? Qual e' il suo compito? E' una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'universita' stia nella brama di conoscenza che e' propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto cio' che lo circonda. Vuole verita'. In questo senso si puo' vedere l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale e' nata l'universita' occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A cio' Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti ? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto cio' e' vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, pero', in Socrate derivava da una religiosita' piu' profonda e piu' pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che e' Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio piu' grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosita', ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identita' la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verita' intera. Poteva, anzi doveva cosi', nell'ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l'universita'. E' necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere - vuole verita'. Verita' e' innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theori'a, come la chiama la tradizione greca. Ma la verita' non e' mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocita' tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto cio' che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verita' significa di piu' che sapere: la conoscenza della verita' ha come scopo la conoscenza del bene. Questo e' anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual e' quel bene che ci rende veri? La verita' ci rende buoni, e la bonta' e' vera: e' questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perche' ad essa e' stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si e' rivelata insieme come il Bene, come la Bonta' stessa. Nella teologia medievale c'e' stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'universita' medievale con le sue quattro Facolta' presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facolta' che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata piu' come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalita', che l'arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire e' un compito che richiede sempre piu' della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facolta' di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla liberta' umana che e' sempre liberta' nella comunione reciproca: il diritto e' il presupposto della liberta', non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una liberta' vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo punto s'impone un salto nel presente: e' la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della liberta', della dignita' umana e dei diritti dell'uomo. E' la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanita'. Jurgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimita' di una carta costituzionale, quale presupposto della legalita', deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non puo' essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verita'" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). E' detto bene, ma e' cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volonta' politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con cio' baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi pero' sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La sensibilita' per la verita' sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilita' per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilita' per la verita' come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo cosi' il concetto di verita' nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'e' la verita'? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa e' ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a cio' evidente che, nella ricerca del diritto della liberta', della verita' della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse, senza con cio' voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo cosi' alla struttura dell'universita' medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facolta' di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalita' e con cio' il compito di tener desta la sensibilita' per la verita'. Si potrebbe dire addirittura che questo e' il senso permanente e vero di ambedue le Facolta': essere custodi della sensibilita' per la verita', non permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verita'. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa e' una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non e' mai posta e risolta definitivamente. Cosi', a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verita', che rimanda continuamente al di la' di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in cio' una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due puo' essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identita'. E' merito storico di san Tommaso d'Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l'autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilita' propri della ragione che s'interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verita'; che la fede e' il "si'" alla verita', rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell'universita', in Occidente non esistevano piu' quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e cosi' bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilita' propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovo' ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralita'; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Cosi' il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facolta' di filosofia che, come cosiddetta "Facolta' degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facolta' vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivo'. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identita'. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria liberta' e nella propria responsabilita'; deve vedere i suoi limiti e proprio cosi' anche la sua grandezza e vastita'. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a cio' che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all'umanita' come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorita' ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo e' vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verita' di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con cio' anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di cio' che dicono la teologia e la fede puo' essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non puo' presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. E' vero, pero', al contempo che il messaggio della fede cristiana non e' mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere piu' se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verita' e cosi' una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell'universita' medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell'universita' e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'universita' sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalita' della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si e' aperta all'umanita' non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignita' dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell'uomo non puo' mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanita' non e' mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - e' oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verita'. E cio' significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilita', costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell'universita': esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi piu' capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo piu' o meno grande. Se pero' la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono piu' le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verita' e cosi' non diventa piu' grande, ma piu' piccola. Applicato alla nostra cultura europea cio' significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a cio' che al momento la convince e - preoccupata della sua laicita' - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa piu' ragionevole e piu' pura, ma si scompone e si frantuma.Con cio' ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'universita'? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che puo' essere solo donata in liberta'. Al di la' del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale e' suo compito mantenere desta la sensibilita' per la verita'; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire cosi' Gesu' Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro".
Fonte: Petrus
Questo il testo del discorso scritto dal Santo Padre:
"Rettore, Autorita' politiche e civili, Illustri docenti e personale tecnico amministrativo, cari giovani studenti! E' per me motivo di profonda gioia incontrare la comunita' della "Sapienza - Universita' di Roma" in occasione della inaugurazione dell'anno accademico. Da secoli ormai questa Universita' segna il cammino e la vita della citta' di Roma, facendo fruttare le migliori energie intellettuali in ogni campo del sapere. Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l'istituzione era alle dirette dipendenze dell'Autorita' ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si e' sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunita' accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le piu' prestigiose universita' del mondo. Da sempre la Chiesa di Roma guarda con simpatia e ammirazione a questo centro universitario, riconoscendone l'impegno, talvolta arduo e faticoso, della ricerca e della formazione delle nuove generazioni. Non sono mancati in questi ultimi anni momenti significativi di collaborazione e di dialogo. Vorrei ricordare, in particolare, l'Incontro mondiale dei Rettori in occasione del Giubileo delle Universita', che ha visto la vostra comunita' farsi carico non solo dell'accoglienza e dell'organizzazione, ma soprattutto della profetica e complessa proposta della elaborazione di un "nuovo umanesimo per il terzo millennio". Mi e' caro, in questa circostanza, esprimere la mia gratitudine per l'invito che mi e' stato rivolto a venire nella vostra universita' per tenervi una lezione. In questa prospettiva mi sono posto innanzitutto la domanda: Che cosa puo' e deve dire un Papa in un'occasione come questa? Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, si', da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del gia' professore di quella mia universita', cercando di collegare ricordi ed attualita'. Nell'universita' "Sapienza", l'antica universita' di Roma, pero', sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e percio' debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l'universita' del Papa, ma oggi e' un'universita' laica con quell'autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di universita', la quale deve essere legata esclusivamente all'autorita' della verita'. Nella sua liberta' da autorita' politiche ed ecclesiastiche l'universita' trova la sua funzione particolare, proprio anche per la societa' moderna, che ha bisogno di un'istituzione del genere. Ritorno alla mia domanda di partenza: Che cosa puo' e deve dire il Papa nell'incontro con l'universita' della sua citta'? Riflettendo su questo interrogativo, mi e' sembrato che esso ne includesse due altri, la cui chiarificazione dovrebbe condurre da se' alla risposta. Bisogna, infatti, chiedersi: Qual e' la natura e la missione del Papato? E ancora: Qual e' la natura e la missione dell'universita'? Non vorrei in questa sede trattenere Voi e me in lunghe disquisizioni sulla natura del Papato. Basti un breve accenno. Il Papa e' anzitutto Vescovo di Roma e come tale, in virtu' della successione all'Apostolo Pietro, ha una responsabilita' episcopale nei riguardi dell'intera Chiesa cattolica. La parola "vescovo"-episkopos, che nel suo significato immediato rimanda a "sorvegliante", gia' nel Nuovo Testamento e' stata fusa insieme con il concetto biblico di Pastore: egli e' colui che, da un punto di osservazione sopraelevato, guarda all'insieme, prendendosi cura del giusto cammino e della coesione dell'insieme. In questo senso, tale designazione del compito orienta lo sguardo anzitutto verso l'interno della comunita' credente. Il Vescovo - il Pastore - e' l'uomo che si prende cura di questa comunita'; colui che la conserva unita mantenendola sulla via verso Dio, indicata secondo la fede cristiana da Gesu' - e non soltanto indicata: Egli stesso e' per noi la via. Ma questa comunita' della quale il Vescovo si prende cura - grande o piccola che sia - vive nel mondo; le sue condizioni, il suo cammino, il suo esempio e la sua parola influiscono inevitabilmente su tutto il resto della comunita' umana nel suo insieme. Quanto piu' grande essa e', tanto piu' le sue buone condizioni o il suo eventuale degrado si ripercuoteranno sull'insieme dell'umanita'. Vediamo oggi con molta chiarezza, come le condizioni delle religioni e come la situazione della Chiesa - le sue crisi e i suoi rinnovamenti - agiscano sull'insieme dell'umanita'. Cosi' il Papa, proprio come Pastore della sua comunita', e' diventato sempre di piu' anche una voce della ragione etica dell'umanita'. Qui, pero', emerge subito l'obiezione, secondo cui il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma trarrebbe i suoi giudizi dalla fede e per questo non potrebbe pretendere una loro validita' per quanti non condividono questa fede. Dovremo ancora ritornare su questo argomento, perche' si pone qui la questione assolutamente fondamentale: Che cosa e' la ragione? Come puo' un'affermazione - soprattutto una norma morale - dimostrarsi "ragionevole"? A questo punto vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive il carattere della ragione "pubblica", vede tuttavia nella loro ragione "non pubblica" almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalita' secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono. Egli vede un criterio di questa ragionevolezza fra l'altro nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l'esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell'umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalita' a-storica, la sapienza dell'umanita' come tale - la sapienza delle grandi tradizioni religiose - e' da valorizzare come realta' che non si puo' impunemente gettare nel cestino della storia delle idee. Ritorniamo alla domanda di partenza. Il Papa parla come rappresentante di una comunita' credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza e' maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunita' che custodisce in se' un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l'intera umanita': in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica. Ma ora ci si deve chiedere: E che cosa e' l'universita'? Qual e' il suo compito? E' una domanda gigantesca alla quale, ancora una volta, posso cercare di rispondere soltanto in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. Penso si possa dire che la vera, intima origine dell'universita' stia nella brama di conoscenza che e' propria dell'uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto cio' che lo circonda. Vuole verita'. In questo senso si puo' vedere l'interrogarsi di Socrate come l'impulso dal quale e' nata l'universita' occidentale. Penso ad esempio - per menzionare soltanto un testo - alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A cio' Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti ? Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto cio' e' vero?" (6 b - c). In questa domanda apparentemente poco devota - che, pero', in Socrate derivava da una religiosita' piu' profonda e piu' pura, dalla ricerca del Dio veramente divino - i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto se stessi e il loro cammino. Hanno accolto la loro fede non in modo positivista, o come la via d'uscita da desideri non appagati; l'hanno compresa come il dissolvimento della nebbia della religione mitologica per far posto alla scoperta di quel Dio che e' Ragione creatrice e al contempo Ragione-Amore. Per questo, l'interrogarsi della ragione sul Dio piu' grande come anche sulla vera natura e sul vero senso dell'essere umano era per loro non una forma problematica di mancanza di religiosita', ma faceva parte dell'essenza del loro modo di essere religiosi. Non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l'interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identita' la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verita' intera. Poteva, anzi doveva cosi', nell'ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l'universita'. E' necessario fare un ulteriore passo. L'uomo vuole conoscere - vuole verita'. Verita' e' innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theori'a, come la chiama la tradizione greca. Ma la verita' non e' mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocita' tra "scientia" e "tristitia": il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto - chi vede e apprende soltanto tutto cio' che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verita' significa di piu' che sapere: la conoscenza della verita' ha come scopo la conoscenza del bene. Questo e' anche il senso dell'interrogarsi socratico: Qual e' quel bene che ci rende veri? La verita' ci rende buoni, e la bonta' e' vera: e' questo l'ottimismo che vive nella fede cristiana, perche' ad essa e' stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell'incarnazione di Dio, si e' rivelata insieme come il Bene, come la Bonta' stessa. Nella teologia medievale c'e' stata una disputa approfondita sul rapporto tra teoria e prassi, sulla giusta relazione tra conoscere ed agire - una disputa che qui non dobbiamo sviluppare. Di fatto l'universita' medievale con le sue quattro Facolta' presenta questa correlazione. Cominciamo con la Facolta' che, secondo la comprensione di allora, era la quarta, quella di medicina. Anche se era considerata piu' come "arte" che non come scienza, tuttavia, il suo inserimento nel cosmo dell'universitas significava chiaramente che era collocata nell'ambito della razionalita', che l'arte del guarire stava sotto la guida della ragione e veniva sottratta all'ambito della magia. Guarire e' un compito che richiede sempre piu' della semplice ragione, ma proprio per questo ha bisogno della connessione tra sapere e potere, ha bisogno di appartenere alla sfera della ratio. Inevitabilmente appare la questione della relazione tra prassi e teoria, tra conoscenza ed agire nella Facolta' di giurisprudenza. Si tratta del dare giusta forma alla liberta' umana che e' sempre liberta' nella comunione reciproca: il diritto e' il presupposto della liberta', non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: Come s'individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una liberta' vissuta insieme e servono all'essere buono dell'uomo? A questo punto s'impone un salto nel presente: e' la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della liberta', della dignita' umana e dei diritti dell'uomo. E' la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell'opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell'umanita'. Jurgen Habermas esprime, a mio parere, un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimita' di una carta costituzionale, quale presupposto della legalita', deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non puo' essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verita'" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). E' detto bene, ma e' cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono - lo sappiamo - prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volonta' politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con cio' baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi pero' sono spesso particolari e non servono veramente all'insieme. La sensibilita' per la verita' sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilita' per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilita' per la verita' come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo cosi' il concetto di verita' nel dibattito filosofico ed in quello politico. Ma allora diventa inevitabile la domanda di Pilato: Che cos'e' la verita'? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla "ragione pubblica", come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: Che cosa e' ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a cio' evidente che, nella ricerca del diritto della liberta', della verita' della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d'interesse, senza con cio' voler minimamente contestare la loro importanza. Torniamo cosi' alla struttura dell'universita' medievale. Accanto a quella di giurisprudenza c'erano le Facolta' di filosofia e di teologia, a cui era affidata la ricerca sull'essere uomo nella sua totalita' e con cio' il compito di tener desta la sensibilita' per la verita'. Si potrebbe dire addirittura che questo e' il senso permanente e vero di ambedue le Facolta': essere custodi della sensibilita' per la verita', non permettere che l'uomo sia distolto dalla ricerca della verita'. Ma come possono esse corrispondere a questo compito? Questa e' una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non e' mai posta e risolta definitivamente. Cosi', a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda - in cammino con i grandi che lungo tutta la storia hanno lottato e cercato, con le loro risposte e con la loro inquietudine per la verita', che rimanda continuamente al di la' di ogni singola risposta. Teologia e filosofia formano in cio' una peculiare coppia di gemelli, nella quale nessuna delle due puo' essere distaccata totalmente dall'altra e, tuttavia, ciascuna deve conservare il proprio compito e la propria identita'. E' merito storico di san Tommaso d'Aquino - di fronte alla differente risposta dei Padri a causa del loro contesto storico - di aver messo in luce l'autonomia della filosofia e con essa il diritto e la responsabilita' propri della ragione che s'interroga in base alle sue forze. Differenziandosi dalle filosofie neoplatoniche, in cui religione e filosofia erano inseparabilmente intrecciate, i Padri avevano presentato la fede cristiana come la vera filosofia, sottolineando anche che questa fede corrisponde alle esigenze della ragione in ricerca della verita'; che la fede e' il "si'" alla verita', rispetto alle religioni mitiche diventate semplice consuetudine. Ma poi, al momento della nascita dell'universita', in Occidente non esistevano piu' quelle religioni, ma solo il cristianesimo, e cosi' bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilita' propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede. Tommaso si trovo' ad agire in un momento privilegiato: per la prima volta gli scritti filosofici di Aristotele erano accessibili nella loro integralita'; erano presenti le filosofie ebraiche ed arabe, come specifiche appropriazioni e prosecuzioni della filosofia greca. Cosi' il cristianesimo, in un nuovo dialogo con la ragione degli altri, che veniva incontrando, dovette lottare per la propria ragionevolezza. La Facolta' di filosofia che, come cosiddetta "Facolta' degli artisti", fino a quel momento era stata solo propedeutica alla teologia, divenne ora una Facolta' vera e propria, un partner autonomo della teologia e della fede in questa riflessa. Non possiamo qui soffermarci sull'avvincente confronto che ne derivo'. Io direi che l'idea di san Tommaso circa il rapporto tra filosofia e teologia potrebbe essere espressa nella formula trovata dal Concilio di Calcedonia per la cristologia: filosofia e teologia devono rapportarsi tra loro "senza confusione e senza separazione". "Senza confusione" vuol dire che ognuna delle due deve conservare la propria identita'. La filosofia deve rimanere veramente una ricerca della ragione nella propria liberta' e nella propria responsabilita'; deve vedere i suoi limiti e proprio cosi' anche la sua grandezza e vastita'. La teologia deve continuare ad attingere ad un tesoro di conoscenza che non ha inventato essa stessa, che sempre la supera e che, non essendo mai totalmente esauribile mediante la riflessione, proprio per questo avvia sempre di nuovo il pensiero. Insieme al "senza confusione" vige anche il "senza separazione": la filosofia non ricomincia ogni volta dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta nel grande dialogo della sapienza storica, che essa criticamente e insieme docilmente sempre di nuovo accoglie e sviluppa; ma non deve neppure chiudersi davanti a cio' che le religioni ed in particolare la fede cristiana hanno ricevuto e donato all'umanita' come indicazione del cammino. Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorita' ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono. Ma allo stesso tempo e' vero che la storia dei santi, la storia dell'umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verita' di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con cio' anche un'istanza per la ragione pubblica. Certo, molto di cio' che dicono la teologia e la fede puo' essere fatto proprio soltanto all'interno della fede e quindi non puo' presentarsi come esigenza per coloro ai quali questa fede rimane inaccessibile. E' vero, pero', al contempo che il messaggio della fede cristiana non e' mai soltanto una "comprehensive religious doctrine" nel senso di Rawls, ma una forza purificatrice per la ragione stessa, che aiuta ad essere piu' se stessa. Il messaggio cristiano, in base alla sua origine, dovrebbe essere sempre un incoraggiamento verso la verita' e cosi' una forza contro la pressione del potere e degli interessi. Ebbene, finora ho solo parlato dell'universita' medievale, cercando tuttavia di lasciar trasparire la natura permanente dell'universita' e del suo compito. Nei tempi moderni si sono dischiuse nuove dimensioni del sapere, che nell'universita' sono valorizzate soprattutto in due grandi ambiti: innanzitutto nelle scienze naturali, che si sono sviluppate sulla base della connessione di sperimentazione e di presupposta razionalita' della materia; in secondo luogo, nelle scienze storiche e umanistiche, in cui l'uomo, scrutando lo specchio della sua storia e chiarendo le dimensioni della sua natura, cerca di comprendere meglio se stesso. In questo sviluppo si e' aperta all'umanita' non solo una misura immensa di sapere e di potere; sono cresciuti anche la conoscenza e il riconoscimento dei diritti e della dignita' dell'uomo, e di questo possiamo solo essere grati. Ma il cammino dell'uomo non puo' mai dirsi completato e il pericolo della caduta nella disumanita' non e' mai semplicemente scongiurato: come lo vediamo nel panorama della storia attuale! Il pericolo del mondo occidentale - per parlare solo di questo - e' oggi che l'uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verita'. E cio' significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all'attrattiva dell'utilita', costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell'universita': esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi piu' capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo piu' o meno grande. Se pero' la ragione - sollecita della sua presunta purezza - diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono piu' le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verita' e cosi' non diventa piu' grande, ma piu' piccola. Applicato alla nostra cultura europea cio' significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a cio' che al momento la convince e - preoccupata della sua laicita' - si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa piu' ragionevole e piu' pura, ma si scompone e si frantuma.Con cio' ritorno al punto di partenza. Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell'universita'? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che puo' essere solo donata in liberta'. Al di la' del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale e' suo compito mantenere desta la sensibilita' per la verita'; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire cosi' Gesu' Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro".
Fonte: Petrus